Dopo le elezioni politiche di settembre, FDI si conferma locomotiva della coalizione alle consultazioni regionali.
Le elezioni regionali segnano un’altra vittoria di Fratelli d’Italia che si conferma primo partito italiano. Da solo, il partito del Premier Giorgia Meloni ha raggiunto la percentuale dell’intera coalizione avversaria. E’ accaduto anche alle ultime elezioni nazionali. La Meloni prende più voti della somma dei partiti del centrosinistra. Sono risultati straordinari.
Rispetto alle attese, tira un sospiro di sollievo la Lega che ha temuto una debacle in Lombardia, Forza Italia invece resta più o meno stabile poiché si trova in una fase di transizione tra la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra che però non pare avere orizzonti. Ad ogni modo, il centrodestra ha trionfato. Nonostante le sirene di sventura del giornalismo militante di sinistra, né Lega, né Forza Italia metteranno in pericolo la leadership della Meloni, a meno che non aspirino al suicidio ed all’annessione del proprio elettorato. In una eventuale crisi di governo del tutto peregrina, la Meloni potrebbe chiamare l’all inn e vincere da sola. Il sistema nei fatti pare avviarsi ad un bipolarismo tra Fratelli d’Italia e Lega contro Pd ed i resti dei cinquestelle.
Perde il Pd, ma tiene. Il 20 per cento è stato garantito dallo zoccolo duro del proprio elettorato nelle città di Roma e Milano. Ha perso un’altra regione da amministrazione uscente. Praticamente resta in Campania e Puglia al sud e Toscana ed Emilia Romagna al centro nord. E scomparso dal nord da ormai un decennio.
Vanno male i pentastellati che spariscono dagli orizzonti ogni volta che bisogna misurare il consenso sui territori. E’ chiara l’inconsistenza di dirigenti che sono eletti solo al sud per lo sfrenato assistenzialismo. Ciò induce anche ad una riflessione rispetto alla riforma sulle autonomie regionali. Chi si oppone fomentando uno sterile dibattito sulla questione meridionale è la stessa classe dirigente che ha tenuto in ostaggio le regioni del Sud chiedendo solo soldi allo Stato centrale.
Calenda e Renzi registrano la peggiore perfomance. La superbia di Calenda si scontra con la sua incapacità politica. Il risultato è assai deludente, ma non vi era motivo di dubitare. Dopo il pasticcio con Letta durante l’estate, in Lombardia ha candidato la Moratti, assecondando il capriccio di una ricca nobile che voleva diventare presidente con i voti degli altri. Calenda in Lombardia va da solo, nel Lazio va col Pd che lui stesso insulta tutti i giorni. Come fece quando si candidò a sindaco ed al ballottaggio votò il suo avversario Gualtieri. Il pariolino non ha una strategia, ma uno stato confusionale aggravato da un ego che fa impallidire pure Renzi, il quale si è guardato bene dall’apparire in una campagna elettorale che puzzava di disfatta. Frana l’ennesimo tentativo di costruire una realtà politica fuori dal bipolarismo. Insomma, se Carlo Calenda si guarda allo specchio vede Clemente Mastella.
Una riflessione sull’astensionismo. Per decenni la sinistra ha governato senza mandato elettorale con manovre di palazzo ed accordi con gli avversari. Ciò rende le elezioni un inutile rituale e sfiducia l’elettorato. Soprattutto la sinistra non è più riferimento di un’ampia fetta di elettori e di blocchi sociali che restano a casa. Ognuno valuta l’astensionismo secondo la propria convenienza, ma la mancanza di partecipazione è dovuta alla scarsa organizzazione territoriale dei partiti che non coinvolgono più i cittadini, affidandosi al “main stream” ed alla comunicazione social. Va riorganizzata la forma di partito per riallacciare il rapporto tra politica e cittadini, solo così si riporta la gente a votare.